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Recensione "Uvaspina", Monica Acito

Uvaspina lo ami da subito, anche se a tratti fa male, tanto. Sono pagine colme di dolore, amore, delusione, abbandono, depressione, pazzia, solitudine, ma anche conforto, desiderio, speranza, rivalsa, resilienza, accettazione. 

 

Una scrittura tagliente, cruda, diretta, ma mai volgare. Bisogna prendersi del tempo mentre lo si legge perché il dolore è forte, ma necessario. È come uno schiaffo in pieno viso: all’inizio fa male ma poco dopo senti un bruciore quasi piacevole, che scalda e conforta come una carezza. 

Sullo sfondo una Napoli feroce e al contempo amorevole, Palazzo Donn’Anna, Posillipo e il mare, sì il mare che come una madre ti avvolge e assorbe lacrime e dolori, risana le ferite (sulla pelle e nell’animo) che bruciano. Il mare che prende, risucchia, affonda, ti trascina giù. Il mare che diventa una possibilità di rinascita, di incontro, scoperta, di amore. 

 

È a Napoli che vive Carmine Riccio, nato con una macchia sotto l’occhio sinistro che ricorda l’uva spina (da qui il soprannome). Un ragazzo dolce e paziente che ogni mercoledì insieme alla sorella Minuccia vede la madre, Graziella La Spaiata, morire per poi risorgere. Uvaspina ha tredici anni quando capisce che la sorella è uno strummolo, che gira, gira e gira e risucchia tutto.

 

Quando Minuccia si inceppava non bastava tirare lo spago o la cordicella perché, proprio come lo strummolo lei iniziava a girare all’impazzata, e nella sua traiettoria lei diventava un asso piglia tutto, faceva il gioco della scopa d’assi e della smorfia”. Ciò che amava di più era spremere Uvaspina, quasi le provocasse piacere. Stringeva forte, con le parole, con gli occhi con le mani e provava sollievo.

 

Minuccia e Uvaspina, odio e amore, irrequietezza e pacatezza, due vite parallele destinate a sovrapporsi.  

Questa non è solo la storia di Uvaspina, del dolore e della crudeltà del destino che si è accanito contro di lui, che l’amore credeva di non meritarlo.  

È la storia di Minuccia che intreccia il suo dolore a quello del fratello: due anime segnate che vorrebbero essere distanti ma non possono fare a meno dell’altro. 

È la storia de La Spaiata, che nella vita ha cercato di salire tanto in alto solo per cadere. 

È la storia di Pasquale, codardo che avrebbe potuto cambiare le sorti della sua famiglia. 

È la storia di Antonio, che insegna l’amore, quello vero, carnale, passionale, ma anche l’amarezza dell’abbandono. 

È la storia di tutti noi, che ci ritroviamo in tutti loro con l’augurio, però, di avere la forza di Uvaspina: di rinascere dal dolore e la capacità di amare anche quando sembra impossibile.  

 

Ester, libraia Giunti al Punto di Corigliano Calabro

Monica Acito
È nato con una voglia sotto l’occhio sinistro, come un pallido frutto incastonato nella pelle: Uvaspina si è abituato presto a essere chiamato con quel nome che lo identifica con la sua macchia. A quasi tutto, del resto, è capace di abituarsi: a suo padre, il notaio Pasquale Riccio, che si vergogna di lui; alla Spaiata, sua madre, che dopo aver incastrato Pasquale Riccio con le sue arti di malafemmina e chiagnazzara non si dà pace di aver perduto il proprio fascino e finge di morire ogni volta che lui esce di casa. Ma soprattutto Uvaspina è abituato a sua sorella Minuccia, abitata fin da bambina da un’energia che tiene in scacco il fratello con le sue esplosioni imprevedibili, le ripicche, la ferocia di chi sa colpire nel punto di massima fragilità, come quando gli dice: “Avevano ragione i compagni tuoi, sei veramente un femminiello.” Eppure, solo Uvaspina conosce l’innesco che rende la sorella uno strummolo, una trottola capace di ferire con la sua punta di metallo vorticante. E solo Minuccia intuisce i sogni di Uvaspina, quando lo strummolo la tiene sveglia e può scrutare i suoi finissimi lineamenti nel sonno. Intorno a loro, Napoli: la città dalle viscere ribollenti, dai quartieri protesi verso il cielo, dai tentacoli immersi in quel mare che la fronteggia e la penetra. È proprio sul confine tra la città e il mare, tra la storia e il mito, che Uvaspina incontra Antonio, il pescatore dagli occhi di colori diversi, che legge libri e non ha paura del sangue, che sa navigare fino a Procida e rimettere al mondo un criaturo che dubita di se stesso. La purezza del loro incontro, però, non potrà nascondersi a lungo nelle grotte di Palazzo Donn’Anna: la città li attira a sé, lo strummolo gira e il suo laccio unirà per sempre i loro destini. Una passione assediata dallo scherno e dallo scuorno. L’ambiguità dell’amore fraterno, la necessità dell’ombra perché ci sia luce. Infine una scrittura, quella della giovane Monica Acito, che sa inserirsi con originalità in una grande tradizione letteraria e, mescolando la forza tellurica del vernacolo alla freschezza di un racconto sulla giovinezza, invoca la fame di felicità che abita ciascuno di noi.
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L’uvaspina non era un’uva che poteva essere pestata per farne del vino, era soltanto una bacca che serviva per guarire e sopportare i dolori degli altri. Uvaspina accettò di essere un frutto, un frutto buono non soltanto a essere strizzato, non soltanto a curare i dolori dell’altra gente.

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